Quando il Coronavirus lo combatti in un letto di ospedale e quell’ospedale si trova a Pesaro, epicentro della zona rossa marchigiana, ti passa davanti tutta una vita che si incrocia all’improvviso con tanti altri destini appesi a un filo. Un filo pronto a spezzarsi da un momento all’altro. «Ho visto tante persone attorno a me morire, nella più completa solitudine, con la paura che traspariva dal loro sguardo. Non lo dimenticherò mai». Parole e dolore di Michele Gianni, scrittore fanese che il virus è riuscito a sconfiggerlo, anche se ci sono volute due settimane di ospedale e tutta la grinta necessaria per non passare al di là del vetro, nelle terapie intensive. Intubati.
«Io stavo a casa da una settimana, con la febbre che si alzava sempre di più. Era il 6 marzo e dicevano di non recarsi al pronto soccorso ma, in caso di sintomi, di contattare il medico curante. Ho seguito il percorso che indicavano e quando sono venuto a conoscenza che un mio collaboratore si era infettato, l’ho fatto presente e sono stato messo in lista per il tampone». Dentro casa Michele aveva paura di contagiare la sua famiglia, fuori invece era il caos. «Ho aspettato e aspettato, poi alla fine ho deciso di andare al pronto soccorso di Fano. Da lì mi hanno trasferito in ospedale a Pesaro».
Lo scrittore, 64 anni, ha avuto un infarto ed è schedato come iperteso. C’è poco da scherzare. «Ma la parte più dura del mio percorso da paziente Covid è stata proprio quella nel reparto dove venivo curato. Ho visto tanti malati intorno a me morire, nella più totale solitudine. Nessuno, a parte il personale sanitario, poteva entrare nelle stanze. Io avevo il cellulare e con quello restavo in contatto con la mia famiglia». Michele Gianni è stato ricoverato due settimane, poi in isolamento in casa, fino a quando non è arrivato l’esito del tampone positivo.
Durante la convalescenza ha messo nero su bianco l’esperienza vissuta a stretto contatto con il virus ed è diventato un libro, pubblicato da Edizioni Ventura. Si intitola “Rantologia: voci della terra dei tubi” e nel frattempo si è trasformato anche in un recital con la “Canzone del tampone”. Un impegno letterario nato a scopo benefico, ma che adesso viene presentato nelle Marche come una testimonianza diretta di chi è riuscito a farcela.
«Ricordo che il personale sanitario all’inizio si proteggeva come riusciva», poi sono arrivate le tute e le visiere ma nel frattempo medici e infermieri hanno fatto in tempo ad infettarsi.